L'economia che vorrei: Le ricadute delle politiche monetarie non ottimali in caso di inflazione da profitti.
Un interessante documento della Banca dei Regolamenti Internazionali (Monetary Policy with Profit Driven Inflation - by Enisse Kharroubi and Frank Smets - 02/2024) ripercorre le cause della comparsa dell'inflazione che stiamo vivendo, e per fortuna lasciandoci alle spalle.
Gli autori ricordano che l'attuale impennata dell'inflazione presenta molte somiglianze con l'esperienza degli anni settanta, infatti, In entrambi i casi l'inflazione ha registrato un improvviso aumento raggiungendo rapidamente tassi a doppia cifra, sulla scia di eventi avversi innescati da shock dei prezzi delle materie prime. Come negli anni settanta lo shock originato dalla contrazione della disponibilità delle materie prime si è rapidamente trasmesso ai prezzi dei beni e dei servizi, generando pressioni inflazionistiche su larga scala e come in passato, l'intervento della politica fiscale, per attutire l'impatto dello shock, ha probabilmente peggiorato il quadro dell'inflazione.
Ultimo ma non meno importante, l'esperienza degli anni settanta è stata segnalata come un promemoria dell'alto costo di sradicamento dell'inflazione in assenza di un'azione di politica monetaria tempestiva e decisiva.
Dopo le prime somiglianze tra i due eventi gli economisti segnalano le differenze tra quanto accaduto negli anni settanta e ora nel periodo tra il 2021 e il 2023. Infatti, i fattori che hanno portato alla recente impennata dell'inflazione sono fondamentalmente diversi da quelli in atto nel passato. Allora, il costo unitario del lavoro (CLUP) era il principale motore dell'inflazione del PIL. Ma più recentemente, questo ruolo è stato assunto dai profitti unitari (UP). L'evidenza empirica indica addirittura che l'UP è diventato un indicatore anticipatore dell'inflazione del PIL. Se ne trovano conferme nelle indagini sul cambiamento strutturale dell'offerta e dei prezzi negli Stati Uniti, ma i dati suggeriscono un modello simile anche in altri paesi come il Canada e la Germania. Inoltre, questa evidenza è coerente con il fatto che gli utili aziendali:
(i) rappresentano ora una quota maggiore del reddito interno lordo
(ii) e che i profitti sono aumentati in modo significativo dopo il Covid.
Basandosi su queste prime considerazioni gli autori osservano che il modello standard di analisi economica neokeynesiana non è in grado di far apprezzare una correlazione positiva tra i profitti e l'inflazione come osservato nei dati, per non parlare di trasformare i profitti in un motore dell'inflazione e questo perché gli shock che aumentano l'inflazione in genere riducono i profitti quando le imprese si trovano ad affrontare prezzi vischiosi (quando cioè l'aggiustamento dei prezzi a fronte di variazioni improvvise della domanda o dell'offerta non è immediato e avviene lentamente). Inoltre, nei modelli standard, la politica non ha alcuna influenza sui margini delle imprese, poiché i margini dipendono solo dai fondamentali dell'economia e delle determinanti dei prezzi e dei costi di produzione. Di conseguenza, collegare le politiche all'inflazione resta un territorio in gran parte inesplorato soprattutto indagare e capire se la politica economica e monetaria debba essere condotta diversamente quando l'inflazione è guidata dai profitti, non è un compito facile.
Per affrontare queste carenze nel documento viene proposto l'uso di un modello economico che si basa sul nuovo quadro normativo keynesiano, che dovrebbe consentire di collegare l'inflazione e i profitti. Nel modello si introducono profitti di riserva sul lato dell'offerta, in modo che le imprese operino solo se i profitti correnti sono sufficientemente grandi da consentire almeno il pareggio. Gli shock che riducono i profitti contraggono quindi il lato dell'offerta dando origine alla cosiddetta "inflazione guidata dai profitti". Utilizzando questo quadro si indaga sull'impatto e sulla risposta ottimale di politica in caso di shock di spinta dei costi, prendendo ad esempio gli shock sui prezzi dell'energia.
In questi modelli, gli shock dei prezzi energetici sono inflazionistici per tre ragioni. Innanzitutto, perché l'energia è un bene di consumo. In secondo luogo, perché l'energia è un input produttivo. Le aziende tendono ad applicare prezzi più alti, quando l'energia è più costosa (traslazione sui prezzi). Ultimo, i costi dell'energia che crescono incidono sui profitti, alcune aziende preferiscono ridimensionare l'offerta. Per inciso, questo riduce il numero di varietà di beni di consumo offerti sul mercato, aumentando il prezzo del bene di consumo composito e portando ad ulteriori pressioni inflazionistiche.
Sulla base di questo quadro si possono ricavare tre risultati principali. In primo luogo, gli shock (positivi) dei prezzi dell'energia portano a contrazioni dell'offerta inefficientemente ampie ed elevate che innescano pressioni, guidate dai profitti, sull'inflazione. Il motivo è il seguente: gli shock dei prezzi dell'energia in genere pesano sui profitti delle imprese, in particolare su quelli delle imprese con prezzi vischiosi poiché queste imprese non sono in grado di adeguare i prezzi dei loro output in linea con il prezzo dei loro input. Di conseguenza queste imprese preferiscono ridimensionare l'output, il che garantisce che quelle ancora operative siano in grado di raggiungere il pareggio. Nel frattempo, le imprese che sono in grado di adeguare i prezzi in modo più veloce e flessibile sono anche in grado di fissare i prezzi in modo ottimale, e in genere ottengono profitti positivi e più elevati. Tuttavia, quando le aziende con prezzi vischiosi ridimensionano la produzione, non tengono conto dell'impatto inflazionistico del loro ridimensionamento operante dal lato dell'offerta. Per questo motivo, la crescita del costo dell'energia porta a degli shock dei prezzi che creano contrazioni dell'offerta e di conseguenza a un'inflazione "orientata al ridimensionamento o al profitto" (inefficienze del funzionamento dell'offerta di beni).
In secondo luogo, in risposta a uno shock positivo sui prezzi dell'energia, la politica monetaria ottimale segue un ordine gerarchico. Mira innanzitutto a isolare il lato dell'offerta dalle ricadute dello shock dei prezzi dell'energia, neutralizzando di fatto l'inefficienza del ridimensionamento. Per questo, la banca centrale inasprisce la politica, tanto più quanto maggiore è il grado di vischiosità dei prezzi nell'economia. Quando la banca centrale aumenta il tasso di interesse, questo smorza l'aumento del prezzo dell'energia, ma deprime anche la domanda aggregata e quindi il livello dei salari.
Entrambe queste forze riducono il costo marginale e quindi il costo della distorsione vischiosa dei prezzi. Di conseguenza, i profitti delle imprese che praticano prezzi vischiosi diminuiscono in misura sempre minore. Come è chiaro, maggiore è il grado di vischiosità dei prezzi nell'economia, maggiori saranno i benefici di una politica restrittiva poiché un numero maggiore di imprese è soggetto al rischio di ridimensionamento. Detto questo, isolare il lato dell'offerta – dalle ricadute dello shock dei prezzi energetici – con tassi di interesse elevati va a scapito della domanda aggregata. Pertanto, quando lo shock dei prezzi energetici è ampio, lo è anche il costo di isolare il lato dell'offerta, in termini di compressione della domanda. La politica attuata, quindi ripartisce il peso dello shock dei prezzi energetici, consentendo di fatto ad alcune aziende che fissano i prezzi di ridimensionarsi generando pressioni inflazionistiche guidate dai profitti.
In terzo e ultimo luogo, le politiche che promuovono la ridistribuzione sia dal lato della domanda (nel settore delle famiglie) che dal lato dell'offerta (nel settore delle imprese) possono contribuire a ripristinare l'efficacia della politica monetaria. L'intuizione è molto semplice. Quando l'economia si trova ad affrontare uno shock molto forte sui prezzi dell'energia, il costo opportunità di mantenere in funzione anche un piccolo numero di imprese con prezzi fissati diventa troppo grande rispetto ai benefici. La politica monetaria non ha quindi altra alternativa che consentire a tutte le aziende che praticano prezzi vischiosi di ridimensionarsi. Ora, quando la politica fiscale ridistribuisce il reddito verso le famiglie vincolate, cioè coloro che consumano il loro reddito corrente, ciò in genere fa aumentare la domanda aggregata, dando spazio alla banca centrale per inasprire la politica e riportare in attività alcune aziende con prezzi vischiosi. Allo stesso modo, imporre una tassa sulle imprese redditizie (prezzi flessibili) ed estendere un sussidio alle imprese non redditizie (prezzi vischiosi) contribuisce a mantenere in attività le imprese con prezzi vischiosi. In pratica, l'economia funziona come se la vischiosità dei prezzi fosse più pervasiva, il che dà ancora una volta più margine di manovra alla politica monetaria per orientare l'economia nella direzione appropriata.
Il modello come accennato si basa su una versione semplificata del quadro teorico neokeynesiano, che gli autori estendono per incorporare i profitti di riserva sul lato dell'offerta. In questo quadro, le famiglie eterogenee forniscono lavoro alle imprese e consumano i beni che le imprese producono in concorrenza monopolistica. Inoltre, le imprese, che producono varietà distinte di beni di consumo, operano solo se riescono a raggiungere il pareggio, il che influisce sull'insieme dei prodotti. che le famiglie possono consumare. Il modello si concentra sull'impatto degli shock inflazionistici, prendendo l'esempio degli shock sui prezzi dell'energia. Per rendere questi shock rilevanti, si introduce l'energia dal lato della domanda (come bene di consumo per le famiglie) e dal lato dell'offerta (come input di produzione per le imprese).
Il modello si basa sull'assunto, già descritto, che le imprese che si trovano ad affrontare un aumento del prezzo dei loro input subiscono una caduta dei profitti se non possono aumentare il prezzo della loro produzione. Di conseguenza, le imprese con prezzi fissati, cioè quelle che non possono rivedere i prezzi, potrebbero subire perdite, nel qual caso preferirebbero ridimensionare la produzione, poiché non sarebbero più in grado di raggiungere il pareggio. Al contrario, il prezzo praticato dalle imprese che hanno una minore vischiosità nel determinare i prezzi rifletterà il prezzo più elevato dell'energia e quindi il costo marginale di produzione sarà più elevato, e i profitti maggiori di quelle che registrano prezzi vischiosi.
Nel documento gli economisti indagano, come detto, sulla questione dell'inflazione influenzata dai profitti nel contesto di un Nuovo modello Keynesiano che è stato arricchito con profitti di riserva sul lato dell'offerta. In un quadro del genere l'indagine si sposta sulle implicazioni positive e normative degli shock da spinta dei costi, prendendo l'esempio degli shock dei prezzi energetici e concentrandosi sulla politica monetaria. Si dimostra che gli shock dei prezzi dell'energia portano a contrazioni dell'offerta inefficientemente ampie e quindi a un'inflazione (spinta dai profitti) elevata, poiché le imprese che effettuano tagli non internalizzano i costi sociali che ciò comporta. In secondo luogo, gli autori mostrano che la politica monetaria ottimale deve seguire un sistema di ordine gerarchico specifico, visto che il suo obiettivo dovrebbe essere innanzitutto proteggere il lato dell'offerta dalle ricadute dello shock, annullando così l'esternalità negativa del ridimensionamento. Quindi suddivide il peso dello shock tra domanda e offerta, quando isolare il lato dell'offerta è troppo costoso. Infine, quando lo shock dei prezzi energetici è molto ampio, la politica monetaria perde efficacia. Interventi fiscali neutrali in termini di bilancio, ad esempio la ridistribuzione dalle famiglie ad alto reddito a quelle a basso reddito e/o dalle imprese ad alto profitto a quelle a basso profitto può ripristinare l'efficacia della politica monetaria e governare meglio l'inflazione e le sue ricadute sociali.
DOTT. ARTURO GULINELLI