
Rimborso Iva: la Cassazione conferma che la prova spetta al contribuente
- travisato il contenuto di un documento, qualificando una mera richiesta documentale dell'Agente della riscossione come un "riconoscimento del debito"
- fondato la sua decisione su un presupposto di fatto palesemente inesistente, ossia che l'Agenzia non avesse mai risposto all'interpello del contribuente. Al contrario, l'ufficio ha dimostrato di aver regolarmente inviato una risposta negativa a mezzo Pec all'indirizzo della professionista che aveva curato l'istanza. L'omessa considerazione di questo documento decisivo ha viziato insanabilmente la sentenza di secondo grado.
Nel riaffermare che il contribuente, in quanto attore sostanziale, è l'unico soggetto onerato della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa creditoria, la Corte di cassazione con l'ordinanza n. 17110 del 25 giugno 2025 si pone nel solco di un orientamento consolidato, autorevolmente sancito dalle proprie sezioni unite.
La vicenda processuale
La controversia origina dalla richiesta di rimborso di un credito Iva per l'anno 2016, avanzata da una società in nome collettivo. A fronte del diniego opposto dall'Agenzia delle entrate, che contestava la "mancanza di esercizio di attività" rilevante ai fini Iva, la contribuente si è rivolta alla giustizia tributaria.
Se in primo grado il ricorso veniva respinto, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado (Cgt2) dell'Abruzzo ha accolto l'appello della società.
Il giudice di secondo grado, in particolare, ha fondato la propria decisione su due argomenti principali: in primo luogo, ha qualificato una missiva interlocutoria dell'Agente della riscossione, con cui si richiedevano documenti, come un vero e proprio "riconoscimento del debito"; in secondo luogo, ha ritenuto che il presunto silenzio dell'Amministrazione, a seguito di un'istanza di interpello, avesse formato un assenso vincolante, secondo le norme contenute nel Dlgs n. 156/2015.
L'Agenzia delle entrate ha impugnato la sentenza con ricorso per cassazione, lamentando, tra gli altri motivi, l'omesso esame di fatti decisivi e la violazione delle norme sull'onere della prova.
Il contesto normativo e il ruolo delle sezioni unite
La decisione della suprema Corte si fonda su principi processuali chiari e consolidati, la cui bussola è rappresentata dall'autorevole intervento delle sezioni unite.
Il punto di partenza è che nel processo tributario, quando si controverte su un'istanza di rimborso, il contribuente agisce come "attore in senso sostanziale". Questa qualificazione ha una conseguenza processuale ineludibile: spetta al contribuente che chiede il rimborso fornire la prova dei fatti costitutivi che legittimano la sua pretesa.
Su questo aspetto, l'ordinanza in commento richiama esplicitamente la pronuncia delle sezioni unite, la n. 21766 del 29 luglio 2021, che ha cristallizzato il principio affermando che "secondo le regole ordinarie, il contribuente che intenda far valere la propria pretesa al rimborso deve assumersene l'onere probatorio; il che a maggior ragione vale a fronte della contestazione del fisco".
Anche a seguito dell'introduzione dell'articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs n. 546/1992, nelle controversie su istanze di rimborso l'onere della prova non si sposta: spetta sempre al contribuente, in qualità di attore sostanziale, dimostrare i fatti che costituiscono il proprio diritto al rimborso, poiché la nuova norma si applica ai procedimenti di accertamento in cui è l'Amministrazione a contestare una violazione, e non alle pretese avanzate dal contribuente stesso.
Di conseguenza, l'eventuale comportamento inerte dell'Amministrazione finanziaria non può mai tramutarsi in un vantaggio probatorio per il contribuente. La legge, infatti, assegna all'inerzia un significato preciso: quello di rifiuto tacito. L'articolo 21 del Dlgs n. 546/1992 ammette il ricorso contro il "silenzio rifiuto" formatosi sull'istanza di rimborso. Tale meccanismo, come sottolineato dalla stessa Cassazione, funge da "anello di congiunzione" tra la fase procedimentale e la tutela giudiziale, ma non esonera il contribuente dal dover provare integralmente il proprio diritto nel successivo giudizio.
Il principio di diritto affermato dalla Cassazione
La suprema Corte, applicando rigorosamente i suddetti principi, accoglie i motivi di ricorso dell'Agenzia e cassa la sentenza impugnata.
In primo luogo, la Corte sancisce la fondatezza del motivo relativo all'omessa pronuncia sull'onere della prova. La Cgt2 ha completamente ignorato la questione centrale, ovvero che la società contribuente non aveva mai fornito in giudizio la prova della spettanza del rimborso e dell'esistenza dei presupposti richiesti dalla legge. Per la Cassazione, non è comprensibile come si possa ritenere dovuto un rimborso senza che ne siano provati i presupposti.
In secondo luogo, accoglie il motivo relativo all'omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 5, cpc. Il giudice di merito, in sostanza, ha:
La Cassazione, pertanto, ripristina la corretta gerarchia dei principi processuali: prima di valutare il comportamento dell'Amministrazione, il giudice deve verificare se il contribuente abbia adempiuto al proprio onere probatorio. In mancanza di tale prova, la domanda di rimborso non può trovare accoglimento.
Conclusione
Con un'argomentazione lineare e aderente ai dettami delle proprie sezioni unite, la Corte ribadisce che a fondare il diritto del contribuente a ottenere un rimborso d'imposta è solo e unicamente la prova rigorosa e puntuale dei fatti costitutivi del credito, non rilevando presunte inerzie dell'ufficio. La pronuncia costituisce un richiamo inderogabile a non trascurare mai la centralità dell'onere della prova, quale pilastro insostituibile di un giusto ed equo processo tributario.
Da Fisco Oggi